C’era ancora una volta
dedicata ad Ariel

di Iolanda Stocchi – 18 ottobre 2019

L’immaginazione è malata
A partire dalla mia esperienza clinica con i bambini e gli adulti ho potuto toccare con mano che  l’immaginazione è oggi profondamente in crisi, e questo è pericoloso perché ci rende meno liberi e meno umani. I bambini non solo non sanno più giocare, non leggono quasi più. Dicono che è faticoso e che richiede troppo tempo. “Giocano” con gli smart phone, perché dicono che, quando si fermano,si annoiano. È perché sentono il vuoto dentro di loro. Un vuoto che non può essere creativo perché lo fuggono – come lo fuggono i loro genitori – riempiendosi di cose da fare.
Viviamo in un tempo, come dice Calvino, nelle Lezioni americane “in cui si sta verificando la perdita di una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di pensare per immagini.”
È un tempo infatti nel quale da un lato siamo sommersi da immagini idolo o spazzatura e dall’altro siamo invasi da un’ipertrofia della parola disincarnata. Una parola che spiega e non rivela. Piatta.
Non una parola presenza e luogo, che favorisce l’immaginazione.
Il bombardamento di immagini,  che arrivano da fuori, a cui sono sottoposti  i bambini, atrofizza l’immaginazione e la produzione di immagini che emergono dalla psiche.

“L’immaginazione è come il sistema immunitario”.
Non avere la capacità di immaginare è come non avere un sistema immunitario capace di metabolizzare l’esperienza, soprattutto il negativo. Non potere trasformare – come diceva Hegel – il negativo in vita. L’immaginazione è una strada per riuscire ad affrontare le sfide della vita, la paura e la morte.
I problemi diceva Einstein non si risolvono al livello in cui sono stati creati.
L’immaginazione permette un cambio di sguardo, e quindi la possibilità di trovare delle soluzioni creative.
Credo profondamente nel valore terapeutico dell’Immaginazione – come organo di senso e di percezione – e dello sguardo che può facilitare queste dimensioni.
E penso, come dice Hillman, che “siamo tutti pazienti dell’immaginazione”.

Come risvegliare e curare un sistema immunitario che si è ammalato e atrofizzato?
Ho detto altrove che il Gioco della Sabbia e il gioco in generale possono essere un rimedio e una cura. Oggi vorrei aggiungere: anche la lettura.

Perché il libro e la lettura possono essere un rimedio?
La lettura favorisce l’esperienza di lasciare che le nostre immagini emergano.
Il libro ci invita a un ascolto e mette l’accento sulle immagini interiori, quelle che sono dentro di noi.
Ma perché questo sia possibile ci deve essere un incontro tra il libro e il vissuto del bambino.
Trovare il libro giusto per quel bambino significa iniziarlo al suo mondo interiore e all’immaginazione. Bisogna aiutare i bambini ad appassionarli alla lettura.
Meno videogiochi e più libri.

I libri sono dei facchini!
Sono dei facchini per il linguaggio che utilizzano.
“La parola greca per dire  “facchino”  è metafora. E questo ci ricorda quanto profondamente l’atto del trasportare, dell’inviare e consegnare, sia inseparabile dall’immaginazione.”
(Berger J., E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto.)
I libri ci trasportano in altri mondi, e portano di qua quello che è nel mondo immaginale.

Ariel
Ariel – la bambina che un giorno mi disse:“l’immaginazione è come il sistema immunitario” – è stata la mia “pusher” di libri.
«Ariel è una bambina coraggiosa e speciale. È stata malata e ha lottato per guarire.

Un giorno – quando ancora aveva il sondino per alimentarsi perché non poteva deglutire – mi dice che ha paura e aggiunge: “Non riesco a piangere”, “Il massimo è così”, e gli occhi le si dilatano e diventano profondi e lividi.

Le dico che è importante che tiri fuori le emozioni negative e tutte le sue paure.

In quel momento la sua malattia le impedisce anche di disegnare. È sdraiata a letto. Le dico che però può immaginare, e che le immagini la possono aiutare.

Si illumina e mi dice. “Allora le immagini e l’immaginazione sono come il sistema immunitario”. E con un filo di voce aggiunge: “Io di immaginazione ne ho tanta”.»  (Da Il Gioco della Sabbia. La Pazienza dello Sguardo.)

La sua malattia l’aveva costretta a letto. E lei leggeva e immaginava. Aveva una saggezza nel sapere qual era il libro giusto per ognuno. Ho letto insieme a lei. Ho letto i libri che stava leggendo lei, o che aveva appena letto lei.  Era un modo per starle accanto. Grazie a lei, mi sono costruita quella che ho chiamato una “Farmacia di Libri”. Libri come rimedio. E poi ne ho scoperti altri.

Perché le storie toccano l’anima e la mettono in movimento con l’immaginazione?

Perché utilizzano il linguaggio poetico e metaforico, parlano del distante, dell’invisibile.
Il linguaggio per potersi avvicinare al Reale deve cambiare da nominale per diventare aggettivale. Tutto questo ha a che fare molto con l’arte: la parola giusta, il colore giusto.
Se le cose si spiegano, la sensazione sparisce. La realtà va raccontata, non spiegata.
Il linguaggio che fa fare l’esperienza di quello che racconta, è una parola poetica che fa. Guarisce.
Perché qualcosa corre dentro il linguaggio. Ascoltare la cosa che non dico in quello che dico. E che ascolto. Questo è quello che fanno le storie che catturano l’attenzione dei bambini e dei giovani.
Raccontare storie, trovare la storia giusta per quel bambino, per quel ragazzo è clinica poetica che – attraverso il racconto di vite reali o immaginarie – sa parlare a tutti, perché capace di raccontare la parte profonda della vita umana, i poteri da cui siamo tenuti in vita, e dove i pazienti diventino – con le loro storie – figure vive che ci tengono compagnia e gettano un po’ di luce nel cammino.

Le storie ci introducono a un altro tempo. Il tempo della lettura è la durata.
Il tempo a cui ci introduce il libro è un tempo diverso da quello del video gioco. È un tempo – come quello del gioco simbolico – più lento. Dura.
L’esperienza  dei ragazzini è che quando utilizzano i dispositivi elettronici il tempo corre in fretta, vola via. Anche per questo il tempo che i genitori lasciano loro per giocare con i videogiochi non è mai abbastanza, e loro ne vogliono sempre di più. Il tempo sembra un gorgo in cui si perdono.
Un tempo frantumato, non “cucito” e tenuto insieme. Istanti, non un presente che arriva da un passato e guarda al futuro. Un tempo che corre. Perché?
Forse proprio perché non ha un radicamento nel corpo e nello spazio.
Quando devono iniziare a leggere un libro fanno fatica a prendere la decisione di iniziare, ma dopo trovano piacere perché: «dura di più», mentre quando guardano un videogioco o un video all’inizio  tutto sembra più facile, ma poi il tempo: «vola via», «è tutto così veloce, non c’è tempo!» 
Nell’immaginazione: nel gioco e nella lettura, andiamo invece oltre il kronos che divora il tempo – pensiamo ai kronofagi scolpiti sui capitelli medioevali – e con cui lottiamo tutti i giorni, ma non cadiamo in quel luogo fuori dallo spazio-tempo – dove non c’è spazio e non c’è tempo per il corpo, le emozioni, la complessità del nostro essere e vivere. Nell’immaginazione abitiamo un tempo nuovo, quello del kairos, dell’istante che si rinnova e che è reso permanente nel fluire del tempo, tempo che tiene insieme realtà psichica e mondo esterno. Il teologo R. Panikkar parlava di tempieternità.
“Nonostante gli orologi e la regolare rotazione della terra, il tempo viene vissuto come se scorresse a velocità differenti. Tale impressione viene generalmente scartata come soggettiva, perché il tempo, in base alla visione ottocentesca, è oggettivo, incontestabile e indifferente; (…) Tuttavia, forse,  la nostra esperienza non andrebbe liquidata così in fretta. Anche supponendo di accettare gli orologi, il tempo non rallenta né accelera. Ma il tempo sembra trascorrere a velocità diverse perché l’esperienza che ne facciamo implica non uno ma due processi dinamici opposti tra loro: accumulazione e dissipazione. Quanto più è profonda l’esperienza di un momento, tanto maggiore è l’accumulazione di esperienza. Ecco perché il momento viene vissuto come più durevole. La dissipazione del flusso temporale è bloccata. La durata reale non è questione di lunghezza, ma di profondità e densità. Proust l’aveva capito. (…)
Il contenuto del tempo, ciò che il tempo porta con sé, sembra implicare un’altra dimensione. (…) quel che conta è che questa dimensione è intrattabile, non si piega al fluire regolare e uniforme del tempo”.
(Berger J., e i nostri volti, amore mio, leggeri come foto.)

Ric-amare insieme i frammenti con il filo della immaginazione
La storia cura, e ri-connette. Le storie ci aiutano a ricucire, ric-amare i frammenti – come nell’arte giapponese del kintsugi – a narrare di nuovo la nostra storia. C’era ancora una volta.
Noi siamo la nostra storia, ma abbiamo bisogno che qualcuno ci ascolti , di qualcuno che ce la racconti, perché diventa nostra solo quando è narrata. Soprattutto quando ci siamo persi.
L’ascolto aiuta a riorganizzare i pezzi dispersi. L’ascolto cura.
M. Ende in Momo, descrive bene questa qualità dell’ascolto: «Quello che la piccola Momo sapeva fare come nessun altro era: ascoltare. Non è niente di straordinario, dirà più di un lettore, chiunque sa ascoltare. Ebbene, è un errore. Ben poche persone sanno ascoltare. E come sapeva ascoltare Momo era una maniera assolutamente unica. Momo sapeva ascoltare in tal modo che ai tonti, di botto, si affacciavano alla mente idee molto intelligenti. Non perché dicesse o domandasse qualche cosa atta a portare gli altri verso queste idee, no; lei stava soltanto lì e ascoltava con grande attenzione e vivo interesse. Mentre teneva fissi i suoi vividi grandi occhi scuri sull’altro, l’altro sentiva con sorpresa emergere pensieri – riposti dove e quando? – che mai aveva sospettato di possedere. Lei sapeva ascoltare così bene che i disorientati o gli indecisi capivano all’improvviso quello che volevano. (…) così sapeva ascoltare Momo.»

 E Berger dice: La prosa è molto più fiduciosa della poesia; la poesia parla alla ferita aperta. (…)
Ogni poema autentico contribuisce all’impresa della poesia. E il compito di questa impresa incessante è rimettere insieme ciò che la vita ha separato o la violenza ha fatto a pezzi. (…) L’impulso della poesia a utilizzare metafore, a scoprire somiglianze (…) serve per scoprire quelle corrispondenze la cui somma finale sarebbe la prova della totalità indivisibile dell’esistenza.”
(Berger J., E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto.)
Le storie ci fanno fare questa esperienza. Le storie ci “tengono” insieme.

I tempi del racconto e i tempi della cura.
I tempi del racconto  –  passato, presente e futuro – sono i tempi della cura.
In questo modo, si rivisita il passato alla luce del presente per ridisegnare un nuovo futuro, che non sia coazione a ripetere, né ri-produzione ma pro-creazione. Il tempo della cura è il futuro anteriore. Incrocio di dimensioni temporali che si attualizza nel transfert, capace di generare un nuovo futuro anteriore fecondo. La narrazione attraverso il montaggio è futuro anteriore.

Essere umani è raccontare storie.
Essere umani è raccontare storie, provare piacere nel raccontarle ed ascoltarle o ansia se queste vengono interrotte. Si dice tessere una storia: i ragni tessono ragnatele per difendersi, noi storie per proteggerci. Si scrive per salvarsi e si scrive perché si è stati salvati. Una storia è fatta di ordito e trama.
Quando raccontiamo storie – se il bambino vuole che gli ripetiamo quel racconto – significa che si riconosce nell’ordito, nel motivo di fondo, nel nodo da sciogliere che la storia presenta. La trama, il racconto e la soluzione della storia aiuta il bambino a sperare e immaginare soluzioni.
Se un bambino trova la sua storia si sente compreso cognitivamente e affettivamente.
C’era, ancora, una volta.
Curare è raccontare, raccontare è curare.
Curare e raccontare. Curare è raccontare, raccontare è curare: trovare il senso della cura e condividerlo.
Le storie curano e diventano luoghi abitabili. Pensate a quante volte un bambino chiede che gli venga narrata la stessa fiaba. O al piacere che prova a sentirsi ripetere avventure vissute insieme. Ritrova il suo filo. Il bambino si sente compreso , in quel racconto trova la sua dimora.
Diventa la speranza di ciò che può diventare. Allora ripetutamente chiede: «ancora, un’altra volta»! Quella storia gli fa da pelle.

A cosa ci introduce dunque il libro? Quale esperienza ci permette di fare?
Ci trasporta – fa il facchino – in un luogo e a un tempo diverso, che dura.  Ci porta in uno  spazio e tempo  – simile a quello del gioco – uno spazio transizionale. Sospeso tra due mondi. Uno spazio per “digerire” il mondo e per rimettere insieme i pezzi dispersi.

Di cosa parlano oggi i libri dei ragazzi?
Ho potuto constatare che oggi i libri parlano per la maggioranza dei casi di raccontare storie e di immaginazione.
Una volta – come ha detto Silvia Vegetti Finzi nell’intervista video “Le relazioni affettive” di M. Manzoni – i libri per ragazzi avevano come obiettivo l’educare l’aggressività, pensiamo a
I ragazzi della via Pal;  poi libri erano un invito alla trasgressione e all’indipendenza, come  Pippi Calzelunghe.
Si è passati dall’educare l’aggressività a un invito a trasgredire.
Oggi, a mio parere,  i libri sono un invito a immaginare e a raccontare storie. Perché è quello che manca oggi!
E come le fiabe di una volta,  ci aiutano ad affrontare le sfide di questo nostro tempo, con un linguaggio diverso.

“C’era ancora una volta”,
“C’era una volta”, “Facciamo finta che ero”: il gioco e la narrazione tengono insieme il detto e il non detto. Il passato e il presente.  Per Walter Benjamin «Il problema originario della lingua è la sua magia (…) Poiché la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non comunicabile».
L’imperfetto storico introduce un tempo che ci mette in un altrove che è qui. E questo cura perché ci permette una seconda storia. Facciamo che ero. C’era ancora una volta. Biografie del desiderio.